Il marketing nell’era del Politically Correct: i disastri della Cancel Culture.

A cura di Bianca Piccioni
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Come la “cancel culture” trasforma le campagne pubblicitarie in disastri reputazionali per i brand.

Negli ultimi anni, la cancel culture è emersa come un fenomeno dominante nei social media, influenzando vari settori, tra cui il marketing. Questa forma di protesta, caratterizzata dalla rapida e spesso implacabile condanna pubblica di individui o aziende per comportamenti o opinioni considerate offensive, ha prodotto innumerevoli effetti negativi nel mondo del business pubblicitario.

Uno degli esempi più eclatanti riguarda il brand di abbigliamento H&M. Nel 2018, l’azienda è stata bersagliata da molti utenti a causa di una controversa campagna pubblicitaria che mostrava un bambino nero indossare una felpa con la scritta “Coolest Monkey in the Jungle“. Le reazioni sui social media sono state immediate e furiose, accusando H&M di razzismo. La risposta del pubblico alla campagna ha dunque portato a boicottaggi con conseguenti scuse pubbliche da parte del brand e il ritiro della pubblicità. Sebbene H&M abbia cercato di rimediare, l’immagine dell’azienda ha subito un danno duraturo.

Fonte immagine: https://www.sbs.com.au/news/article/coolest-monkey-in-the-jungle-h-m-in-hot-water-after-distasteful-hoodie-ad/vs41vz6cg

Un altro caso emblematico è quello di Gillette. Nel 2019, la famosa azienda di rasoi ha lanciato una campagna pubblicitaria intitolata “The Best Men Can Be“, affrontando temi come la mascolinità tossica e il movimento #MeToo. Sebbene l’intenzione fosse di allinearsi con i valori contemporanei di responsabilità sociale, la pubblicità ha diviso l’opinione pubblica. Mentre alcuni hanno lodato Gillette per il coraggio, molti altri hanno criticato l’azienda per aver predicato lezioni morali ai propri clienti. La polarizzazione ha portato a una significativa diminuzione delle vendite e a un’ondata di boicottaggi.

La cancel culture non ha risparmiato le aziende del settore alimentare. Il marchio Aunt Jemima, parte della Quaker Oats Company, ha affrontato un backlash significativo per il suo logo e il nome, ritenuti simboli di stereotipi razzisti. Sotto la pressione pubblica, l’azienda ha deciso di cambiare nome e immagine, un processo che ha comportato costi elevati e incertezza tra i consumatori.

Questi esempi evidenziano come la cancel culture possa avere effetti devastanti e spesso imprevedibili sul marketing. Le aziende si ritrovano a dover camminare su una linea sottile, cercando di evitare di offendere sensibilità pubbliche in costante evoluzione. Inoltre, la velocità con cui le reazioni sui social media possono amplificarsi rende difficile per le aziende controllare la narrativa e proteggere così la propria reputazione.

In risposta, molti brand stanno adottando strategie di crisi più robuste, impegnandosi in un dialogo più attento e proattivo con i loro consumatori. Tuttavia, il rischio di essere “cancellati” rimane una preoccupazione costante. La sfida per il marketing moderno è dunque trovare un equilibrio tra l’aderenza ai valori sociali emergenti e la salvaguardia della propria brand identity, in un’epoca in cui un singolo errore può scatenare un’ondata di indignazione pubblica e portare al patibolo qualsiasi brand.

Dunque, se da un lato la cancel culture può spingere le aziende a riflettere sulle loro pratiche e messaggi veicolati, dall’altro la sua natura talvolta distruttrice e virulenta può causare danni significativi. Le aziende devono quindi navigare con cautela in questo nuovo panorama, dove la costante pressione dei social media e dell’opinione pubblica può trasformare una campagna pubblicitaria ben intenzionata in un disastro reputazionale.