Il dilemma dello spettatore. Quando la comunicazione sociale non è abbastanza

Secondo l’ultimo rapporto dell’UNHCR Emergency Preparedness and Response in 2023 nell’ultimo anno sono 29 i Paesi nel mondo per i quali è stato dichiarato lo stato di emergenza umanitaria – il numero più alto da un decennio a questa parte (Spindler, 2024). Grazie alle potenzialità di interconnessione e diffusione di contenuti delle reti globali, oggi è impossibile non imbattersi in campagne di advocacy e fundraising, che ci ricordano costantemente l’esistenza di una crisi e la sua assoluta gravità. Siamo dunque di fronte a un dilemma: rimanere indifferenti o agire per sostenere il cambiamento?

Sponsored IG Ads di Medici Senza Frontiere, UNICEF Italia, Medical Aid Pal

Alle radici dell’inazione

Ogni anno il Norwegian Refugee Council stipula una lista delle emergenze umanitarie che hanno ricevuto minore attenzione mediatica da parte della comunità internazionale. Tra queste vi sono alcune delle più gravi crisi che hanno  compromesso e influenzato la vita di intere comunità per decenni, come il conflitto in Sudan e in Camerun. Negli anni numerose ONG hanno cercato di capovolgere questo trend, attraverso campagne coinvolgenti e ad alto valore informativo come “South Sudan: How We Are Going The Extra Mile” di MedAir. Nonostante ciò, nulla è cambiato.

Campagna MedAir

Un estratto dalla campagna MedAir “South Sudan: How We Are Going The Extra Mile

Le ragioni di questa prolungata indifferenza hanno poco a che vedere con la campagna in sé bensì sono causate dal sistema della comunicazione umanitaria nel suo complesso. In prima battuta, i destinatari sono portati a mostrare minore sensibilità rispetto a situazioni da loro percepite come lontane, dando invece priorità a ciò che ritengono più rilevante per il proprio benessere e quindi più degno di ricevere attenzione. In questo senso lo spettatore si pone a distanza da ciò che vede: una lontananza  non solo geografica, ma anche emotiva, che gli consente di smarcarsi facilmente dall’obbligo morale di agire (Boltanski, 2000). Inoltre, bisogna considerare che la distribuzione dei problemi sociali all’interno dei media è iniqua (Hilgartner e Bosk, 1988): solo una piccolissima percentuale di essi riceverà copertura, mentre gli altri saranno costretti a trovare nuove strategie per essere attenzionati. In secondo luogo, anche la richiesta di aiuto incessante può essere controproducente, perché genera la c.d. compassion fatigue, termine con cui si intende la sensazione di affaticamento mentale dovuta all’esposizione prolungata ad immagini traumatizzanti (Moeller, 1998). Scegliere quindi di distaccarsi emotivamente dalle rappresentazioni della sofferenza appare come l’unica strada percorribile.

Siamo tutti coinvolti

Se è vero che tutto ciò che accade nel mondo in qualche misura ci riguarda, in che modo possiamo agire senza esporci in prima persona? Nel libro Corpi estranei la ricercatrice Oiza Queens Day Obasuyi offre alcuni spunti:

  • Cercare di decostruire le rappresentazioni della comunicazione umanitaria, informandosi attivamente su ciò che accade nei Paesi in conflitto e andando oltre l’immaginario stereotipato della sofferenza;
  • Dare voce, spazio e visibilità a narrazioni minoritarie, creando luoghi – anche virtuali –  di aggregazione e confronto.

Bibliografia e sitografia

  • Boltanski, L. (2000). “The Legitimacy of Humanitarian Actions and their Media Representation”. Ethical Perspectives 7(1), 3-16. DOI: 10.2143.
  • Hilgartner S., Bosk, L. C. (1988). “The Rise and Fall of Social Problems: A Public Arenas Model”. American Journal of Sociology, 94(7), 53-78. Link
  • Moeller, S.D. (1998). Compassion Fatigue. How the Media Sell Disease, Famine, War and Death. Londra: Routledge.
  • Obasuyi, O.Q.D. (2020). Corpi estranei. Trebaseleghe: People. 
  • Spindler, W. (19/01/2024). “UNHCR: Number of humanitarian emergencies in 2023 the highest in a decade”. UNHCR. Link