25 Gen La sostenibilità ambigua
di Lorena Gridelli
La parola d’ordine della transizione ecologica non è esattamente ciò di cui il pianeta ha bisogno per preservare la stabilità degli ecosistemi.
Nel 1987, con la pubblicazione del rapporto Our Common Future, il concetto di sostenibilità è stato introdotto e associato per la prima volta alla salvaguardia dell’ambiente per definire l’obiettivo di sviluppo sostenibile: “condizione di uno sviluppo in grado di assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri”.
Tuttavia, l’essere sostenibile è un’ espressione ancora ambigua e che merita un miglior chiarimento, in quanto vi è il rischio che imprese e organizzazioni si approprino di questa caratteristica per attribuirla alle proprie attività senza che vi sia un significato univoco nella mente dei consumatori.
Un’attività sostenibile ha la capacità di essere portata avanti per lungo periodo di tempo; ma ciò non le attribuisce necessariamente un significato positivo. In questo senso
In questo senso Patagonia, uno dei brand più sensibili alle tematiche ambientali, rifiuta di definirsi un marchio sostenibile, in quanto la mancata chiarezza del concetto di sostenibilità rischia di tradursi in greenwashing e, quindi, in una perdita di credibilità pur in presenza di attività concrete e sostanzialmente positive.
Prendendo ad esempio un appezzamento agricolo che non è più in grado di produrre i propri frutti, un approccio sostenibile potrebbe risolvere la problematica mediante l’utilizzo di fertilizzanti sintetici con l’obiettivo di portare avanti l’attività di produzione. La sostenibilità di questa attività agricola, tuttavia, trascura la salute del terreno e l’esigenza di rigenerarsi per recuperare a pieno la propria fertilità.
Apportando questo esempio su sistemi di produzione e attività in larga scala, ci si rende conto che l’essere sostenibile non basta, almeno non nella sua accezione letterale.
È possibile, tuttavia, utilizzare dei termini differenti. In particolare, il concetto di resilienza definisce la capacità di un’attività di recuperare la propria stabilità riprendendosi da crisi o perturbazioni.
Un sistema resiliente è sano e rigenerativo, il suo obiettivo non è portare avanti un’attività il più a lungo possibile ma migliorarla e ripararla, ove ve ne sia bisogno.
Tornando all’esempio dell’appezzamento di terreno, un approccio resiliente si focalizzerebbe sull’indagare le cause della perdita di fertilità e sul trovare una soluzione che permetta al terreno di recuperare la propria salute.
L’importanza della terminologia giusta non è una mera querelle semantica, ma è il punto di partenza per raggiungere gli obiettivi prefissati alla COP26 in modo attivo e consapevole.
Infatti, mentre la sostenibilità è una qualità a servizio dei sistemi economici e le attività imprenditoriali, la resilienza ambientale prevede una presa di coscienza da parte dell’uomo.
In un contesto in cui la disponibilità di risorse naturali è in vertiginoso declino mentre le esigenze della popolazione sono sempre più in aumento, non è più possibile sostenere i sistemi produttivi esistenti ma è necessario assumersi la responsabilità dello stato attuale del pianeta e cambiare totalmente approccio.
È fondamentale, dunque, andare alla radice del cambiamento climatico e ripartire da lì, creando una strategia resiliente che permetta di utilizzare le risorse offerte dalla terra senza destabilizzare il naturale equilibrio degli ecosistemi.