Il problema turistico di abolire la caccia ai trofei

Di Gianpaolo Mascaro

 

Photo by Sebastian Pociecha on unsplash.com

 

Da decenni si discute sull’esigenza di rendere illegale la caccia ai trofei, in quanto pratica barbara ed irrispettosa dell’ambiente circostante. Eppure, tra gli ostacoli alla sua abolizione, non pare esservi soltanto la volontà dei cacciatori.

 

La caccia ai trofei consiste nella pratica di cacciare ed uccidere animali selvatici, cosicché i cacciatori  possano conservare ed esporre l’intero corpo – o una parte, quali criniera, testa o zanne – delle loro vittime. Dietro la caccia ai trofei si nasconde un giro di affari enormi, in quanto i cacciatori sono disposti a spendere migliaia di euro per avere accesso agli esemplari di leoni, giraffe, ippopotami, elefanti e di altre specie considerate “esotiche” che vengono tenuti in cattività in zone recintate da cui è impossibile fuggire vivi. In seguito allo svolgimento di questa pratica, migliaia di animali vengono uccisi ogni anno, con gli Stati Uniti e l’Unione Europea comparendo rispettivamente al primo e al secondo posto nella classifica dei maggiori importatori di trofei di caccia al mondo. Nonostante questo fenomeno risulti a primo impatto crudele e disumano, esso viene tuttora legalmente riconosciuto in molti Stati, ed anche il WWF – nota organizzazione internazionale volta alla tutela dell’ambiente – non ha assunto una posizione incondizionatamente contraria alla caccia ai trofei.

Infatti, il WWF ha espresso il proprio riconoscimento e sostegno alla caccia di trofei, a condizione che quest’ultima si collochi all’interno di una più ampia strategia di protezione della natura. In questo contesto, il WWF ha fissato alcuni criteri fondamentali affinché la caccia ai trofei possa ritenersi uno strumento protettivo e, pertanto, condivisibile. Innanzitutto, la pratica di caccia deve essere dettagliatamente regolamentata per legge e le autorità nazionali e locali devono esserne garanti. Soltanto in questo modo sarà possibile scongiurare i rischi di uccisioni incontrollate e di corruzione nella fase di spartizione delle ingenti somme di denaro pagate dai cacciatori. In secondo luogo, la popolazione locale deve partecipare attivamente ai processi decisionali intorno a questa pratica, nonché alla gestione della fauna selvatica. Infine, risulta necessario che i proventi economici derivanti dalla caccia ai trofei siano gestiti in maniera pulita e trasparente, in modo tale da assicurare un valore aggiunto per le popolazioni locali e le specie animali coinvolte.

Dunque, appare chiaro che la caccia ai trofei, se inserita in un quadro normativo efficiente, possa arrecare dei benefici economici alle popolazioni locali, favorendone così lo sviluppo. Tuttavia, The David Sheldrick Wildlife Trust ha pubblicato nel 2014 un rapporto che permette di resistere alla tentazione di ritenere la caccia ai trofei l’unica possibilità di supporto alle comunità indigene. Al contrario, i dati contenuti nel rapporto evidenziano come l’ecoturismo, consistente nell’osservazione diretta degli esemplari nel loro habitat, rappresenti una soluzione molto più adeguata, tanto dal punto di vista economico quanto da quello del rispetto della natura. In questa ottica, è sufficiente pensare al fatto che i proventi medi scaturenti dall’osservazione in natura di un elefante durante tutta la sua esistenza ammontino a circa 1,6 milioni di dollari, mentre il valore grezzo medio dell’avorio ottenuto da un singolo esemplare di elefanti si aggiri intorno ai 21mila dollari.

Per questo motivo, appare fondamentale rimettere quantomeno in discussione la condiscendenza nei confronti della caccia ai trofei, al fine di valorizzare altre pratiche turistiche implicanti esperienze in loco ben più sostenibili e rispettose della biodiversità.