La linea sottile tra cyberattivismo e performattivismo

A cura di Elena Urbinati

Nell’era digitale, la diffusione di Internet e in particolare dei social network su scala globale ha contribuito a democratizzare l’accesso all’informazione, e rafforzato la consapevolezza sulle ingiustizie sociali e ambientali. La crescita dell’attenzione su questi temi si deve soprattutto al costante lavoro di attivisti e attiviste che hanno saputo servirsi sapientemente delle piattaforme digitali  trasformandole in casse di risonanza per i propri messaggi, dando vita al fenomeno del cyberattivismo.

attiviste digitali per il clima

Fonti: Post Instagram di Alice Pomiato e Video Tik Tok di Sofia Pasotto, attiviste per la sostenibilità ambientale

In questo nuovo contesto, la dimensione dell’attivismo collettivamente costruita, ha lasciato il posto a una comunicazione più personale e immediata. Se da una parte ciò ha reso l’attivismo più inclusivo, dall’altra ha messo in luce la mancanza di un confronto. Nelle parole di Facheris (2023), formatrice e fondatrice di Bossy,

Più si va avanti e più diventa chiaro che senza un noi nel processo, l’obiettivo rischia sempre più di essere sé. La collettività è ciò che ci protegge dalla deriva egoriferita.

Niente più assemblee e cortei quindi, bensì una comunicazione fortemente basata sulla viralità dei contenuti, sulla condivisione di buone azioni, ma soprattutto sull’utilizzo di simboli. Benché la loro importanza nel contesto della mobilitazione sia evidente (basti pensare al pañuelo fucsia di Non Una Di Meno), spesso i simboli hanno molto più a che vedere con una precisa costruzione e presentazione dell’identità che passa attraverso le pratiche di consumo. Sotto questa veste l’attivismo si trasforma pertanto in ‘performattivismo’ (Oggiano, 2022) ossia una situazione in cui l’essere attivista diventa uno stile di vita, basato sulla ricerca di visibilità fine a se stessa:

Sono un attivista green perché fotografo la mia borraccia. Sono un attivista per i diritti civili perché ho la bandiera arcobaleno in bio e ho fatto un reel virale contro gli avversari.
Un'attivista si fa una foto ad un corteo

Fonte: Purewow.com

Al suo estremo, il performattivismo trova il suo perfetto alleato nello slacktivism, una pratica promossa da aziende senza alcuna cultura sul piano della responsabilità sociale d’impresa che tuttavia desiderano associare la propria brand image a cause di rilevanza sociale per apparire più sostenibili e inclusive. Da questa collaborazione l’attivista otterrà un ritorno in termini di visibilità, che utilizzerà per creare ancora più engagement attorno alle proprie performance.

Da quanto detto si può dedurre che la spinta a farsi interpreti di un problema sociale  esuli dal significato delle singole azioni. Al contrario, costruire la propria presenza online in quanto attivisti/e richiede un forte senso di responsabilità, nonché la necessità di affrontare le questioni con la giusta dose di sensibilità e coerenza, senza perdere mai di vista il senso primario dell’attivismo come spinta all’azione collettiva.

Bibliografia e sitografia

  • Facheris, I. (2023). Noi c’eravamo. Il senso di fare attivismo. Milano: Rizzoli.
  • Oggiano, F. (2022). SociAbility. Come i social stanno cambiando il nostro modo di informarci e fare attivismo. Milano: Piemme.
  • Vestergaard, A. (2010). “Identity and Appeal in the Humanitarian Brand” in Media, Organisations and Identity, pp.168-184. Londra: Palgrave Macmillan.