Finanza verde: un’arma a doppio taglio

di Lorena Gridelli

A seguito degli appelli lanciati durante la Cop26 al settore finanziario, la finanza verde ha acquisito grande rilevanza. Tuttavia, il suo ruolo nella lotta al cambiamento climatico non è ancora ben definito, presentando criticità e zone d’ombra.

“Per poter raggiungere i nostri obiettivi sul clima, ogni società, ogni azienda finanziaria, ogni banca, assicurazione e investitori dovrà cambiare”. L’appello lanciato al settore finanziario nel corso della Cop26 esprime la crucialità della partecipazione di quest’ultimo per affrontare le sfide del cambiamento climatico.

L’industria finanziaria appare spesso come un mondo isolato, legato solamente al guadagno senza un contatto reale con le problematiche della società. Eppure, una branca definita finanza verde potrebbe costituire la chiave per avvicinarla a questioni urgenti e concrete come il cambiamento climatico. La finanza verde è costituita da scelte di investimento incentrate sulla riduzione dell’impatto ambientale e la promozione dello sviluppo sostenibile.

I settori coinvolti sono molteplici, dalla gestione dei rifiuti all’edilizia, e i prodotti finanziari sono oggetto di investimento in ambito pubblico e privato. Uno dei prodotti più diffusi e conosciuti è il green bond, un’obbligazione incentrata sulla realizzazione di un obiettivo sostenibile come il raggiungimento dell’efficienza energetica.

Gli investimenti “verdi” stanno attirando l’attenzione di banche e investitori per il loro grande potenziale. In occasione della Cop26 è appunto nata la Glasgow financial alliance for net zero, una coalizione di banche e fondi di investimento con l’impegno di investire nella riduzione delle emissioni ed arrivare allo zero per il 2050. Secondo l’ex governatore della Banca centrale inglese Mark Carney, più di 450 società a livello globale sarebbero disposte ad investire per un totale di 100mila miliardi di dollari nella transizione energetica.

Tuttavia, le grandi cifre e le promesse avanzate finora hanno destato scetticismo in gran parte dell’opinione pubblica e soprattutto negli ambientalisti. La mobilitazione di risorse finanziarie necessita di fatti di una pianificazione chiara e decisa al fine di impiegare il capitale disponibile. L’associazione di un’etichetta “verde” alle operazioni finanziarie impone la presenza di obiettivi chiari e realizzabili, rischiando altrimenti di cadere nel greenwashing.

Un esempio è l’ascesa dei transition bond, investimenti in progetti in cui tra gli obiettivi rientrano iniziative mirate al rendere un’impresa più sostenibile ma per i quali non si escludono necessariamente altre attività dannose per l’ambiente, come l’utilizzo di forme di energia inquinanti. Una società potrebbe ad esempio investire nella riduzione delle emissioni attraverso l’introduzione di una forma di energia meno inquinante come un gas naturale, energia che però non può essere categorizzata come verde. I transition bond, dunque, rappresentano un’area grigia in cui è possibile investire in attività meno inquinanti ma non necessariamente green.

La criticità dei prodotti finanziari di questo genere risiede principalmente nella mancanza di una regolamentazione precisa. Non è infatti possibile verificare una corrispondenza tra i proventi derivati da tali investimenti e le strategie di sostenibilità delle imprese emittenti a causa di una mancanza di linee guida riguardanti la loro rendicontazione.

La finanza verde costituisce dunque un’arma a doppio taglio: un veicolo di fondi e risorse ma allo stesso tempo una ennesima etichetta da associare ad iniziative vaghe e troppo deboli per gestire la crisi climatica.