La parola della settimana: comunicazione

a cura della Redazione

Inauguriamo oggi una nuova rubrica – la parola della settimana – rivolta a quelle parole spesso troppo utilizzate che, in quanto tali, smarriscono progressivamente la loro forza e la loro essenza per trasformarsi in nonparole. Buone per ogni occasione. Inutili per tutto il resto. La rubrica è aperta ai contributi di tutti voi. Segnalateci la vostra parola della settimana e saremo lieti di approfondirla con voi.

Sembra un paradosso; la comunicazione, d’altronde, è intorno a noi. Alimenta le nostre giornate relazionali, si afferma nelle nostre interazioni, è l’oggetto dei nostri studi ed è la base su cui contiamo per costruire il nostro futuro professionale. E noi siamo sicuri che questo nostro ruolo di comunicatori sia, sempre di più, fondamentale per ogni business. Ma quanto ai pubblici, qual è la loro percezione del nostro operato?

La domanda non è così scontata come qualcuno potrebbe obiettare. Ce lo dicono, indirettamente, i dati emersi dalla ricerca di Euprera Trust in communicators che hanno evidenziato un alto livello di sfiducia proprio nei confronti di quei professionisti della comunicazione che dovrebbero garantire l’efficienza della resa comunicativa. La ricerca, infatti, sottolinea come gli obiettivi e le attività dei professionisti delle Relazioni pubbliche siano percepiti in maniera sempre più confusa da parte dell’opinione pubblica, tanto da preferire i cosiddetti esperti esterni alle organizzazioni, forse considerati più sinceri. E senza voler andare in ambienti troppo accademici, basti pensare alla nostra quotidianità: è realmente comunicazione, per esempio, il modo in cui alcuni dei gestori a cui ci affidiamo quotidianamente ci declinano nuove offerte apparentemente calibrate sulle nostre necessità? E quella che si respira nelle istituzioni pubbliche e nei vari (ove presenti) uffici comunicazione? L’idea è che si sia parlato così tanto di comunicazione (come ambito, come modalità gestionale ed organizzativa, come metodo) da aver smarrito quelle che sono le ragioni identitarie. Un po’ come un atleta professionista che cerca, anche in allenamento, la giocata ad effetto senza preoccuparsi di quei fondamentali con cui ha inaugurato la propria passione, la propria attività. E, dunque, la domanda è proprio questa: non è forse il caso di recuperare quei fondamentali?