24 Feb Perché #rileggereiclassici: Gustave Le Bon, Psicologia delle Folle.
a cura della Redazione
Sorge spontaneo, in questi giorni, riflettere sulla diffusione delle paure e di comportamenti poco razionali che spesso innesca. Ed è proprio in questi giorni che tornano in mente opere letterarie che, a discapito del loro tempo di pubblicazione, continuano ad essere sempre dannatamente attuali. Un esempio è Psicologia delle Folle di Gustave Le Bon, che indaga magistralmente ciò che accade quando più individui si trasformano in un unicum, che risulta essere qualcosa di più che la semplice somma delle parti. Dando luogo a comportamenti non riconducibili alla razionalità individuale, e provocando azioni mosse da emozioni e stimoli istintivi, dunque irrazionali.
In tal senso, vogliamo riattualizzare una riflessione sul testo di Le Bon, scritta un anno fa da Biagio Oppi sul suo blog, ben lontano dalla crisi odierna del Covid-19, ma che, come lo stesso libro di Le Bon, non è invecchiata nel tempo. Su sua gentile concessione, vi lasciamo di seguito il suo articolo in versione integrale.
Psicologia delle Folle è il primo trattato di psicologia-sociale ad analizzare il tema della folla e dei suoi comportamenti. L’ho letto di recente, mentre mi ero accontentato di conoscerlo solo indirettamente nelle innumerevoli menzioni, contestazioni, riletture, che erano state fatte nel corso del ‘900.
Ammetto di aver sviluppato, in particolare durante gli studi universitari, un pregiudizio nei confronti di Le Bon, che oggi, nell’epoca delle “folle social”, credo di potere e dover rimuovere. In parte ciò si spiegava con il fatto che gli studi sulla comunicazione di massa (negli anni ’90 il grande Wolf, Grandi ed Eco) erano figli del Novecento: questo ventennio del nuovo millennio ha ormai visto cambiamenti radicali.
Il testo ovviamente va letto con le lenti della contemporaneità, facendo quindi la tara a concetti, in primis quello della “razza” e alcuni altri con forti sfumature classiste/iperconservatrici che probabilmente contribuirono a marginalizzare il contributo dell’autore allo studio del fenomeno. Il fatto che la propaganda fascista e nazista, avessero largamente utilizzato il testo non ne possono inficiare la validità a priori. Infatti se si riesce però ad adoperare un’adeguata selezione dei concetti più importanti, per lunghi tratti del testo pare di leggere una riflessione sugli odierni comportamenti delle social media communities:
dalla rinuncia alla razionalità dell’individuo al concetto di prestigio situazionale dei leader (carisma degli influencer), dalle atrocità commesse in gruppo (pensiamo a hater e troll) alla necessità di comunicare per immagini e non per ragionamenti complessi, dal concetto di contagio alla subalternità della rappresentanza politica, e così via fino alla fatale attrazioni per l’uomo forte.
Scritto nel 1895 e recensito da Sorel, Freud, Lipmann, Bernays, questo volume ha avute alterne fortune anche a causa del suo autore, controverso personaggio, medico, archeologo, antropologo, socio-psicologo e animatore di cenacoli politico-culturali. Alcuni contenuti adeguatamente distillati rappresentano, a mio avviso, raffigurazioni attualissime del momento di cambiamento epocale che stiamo vivendo e ancor poco capendo.
Fonte: PRanista