La responsabilità del comunicatore oggi. Una nota a margine.

Ospitiamo oggi un breve commento del nostro mentor Stefano Martello che ha scelto di rispondere pubblicamente ad una delle tante domande che gli poniamo quotidianamente.

di Stefano Martello

Che cosa vuol dire essere un comunicatore? Una domanda a bruciapelo, posta da uno dei miei ragazzi di CommtoAction durante una delle tante riunioni di redazione. Non ho risposto, quella sera c’era una partita della Roma e volevo sbrigare le incombenze più urgenti per soffrire in santa pace. Ma rispondo ora, subito dopo aver letto un bel pezzo di Omer Pignatti che ho conosciuto e di cui ho apprezzato i contenuti nel 2017 durante l’incontro Alla Ricerca dell’Ascolto perduto organizzato dal solito Biagio Oppi alle porte di Bologna. Pignatti evidenzia – a proposito della campagna elettorale emiliano-romagnola – un’assenza pressoché totale di contenuti a vantaggio di schermaglie e polemichette social che poco hanno a che vedere con i temi di governo della regione, chiudendo con una domanda solo apparentemente ridondante ma decisamente di buon senso: si tratta di una semplice crisi della politica o siamo di fronte ad un cambiamento strutturale guidato dal modo con cui si comunica e ci si rapporta sui social network?

Riparto da qui, da questo bivio che ci pone di fronte a due strade ugualmente impervie. Da una parte una crisi che è politica e, nel contempo, comunicativa dato che sfrutta il processo comunicativo (solo digitale?) per giustificare l’assenza di alternative. Dall’altra, un cambiamento strutturale di cui dovremmo verificare i limiti, le potenzialità, le incongruenze e le debolezze, non solo (per) rispetto ai nostri referenti/Clienti ma ancora di più rispetto alla comunità (locale, nazionale, europea che sia) in cui viviamo. Confermando, così, quel ruolo di interesse pubblico già citato nel Melbourne Mandate accanto alla cultura dell’ascolto e del coinvolgimento attivo. Come? Semplicemente esercitando quella sensibilità che è (dovrebbe essere) propria del ruolo del relatore pubblico. E, meno semplicemente, abbandonando la trincea del dipende per abbracciare una meno gratificante politica del sì e del no. Entrambi decisi e privi di sfumature perché frutto di un’analisi serrata e supportata dai dati più che dalla possibile convenienza di breve termine. Non è semplice ora e non lo sarà in futuro; le variabili che possono e potrebbero spingerci verso zone più confortevoli (per i nostri nervi, per la nostra salute finanziaria, per i rinnovi di contratto) sono tante e tutte legittime. Ma è altrettanto chiaro – e ve lo scrive uno che a distanza di un decennio viene ancora giustamente preso per il culo per aver scritto che Second Life avrebbe cambiato il modo di assistere ai concerti – che l’alternativa sino ad oggi più o meno praticata semplicemente non funziona. Esponendoci ad un rischio reputazionale che potrebbe compromettere quel percorso ancora lungo e faticoso di accreditamento pubblico e sociale. Dunque, chi dovrebbe essere il comunicatore? Semplicemente uno che non teme alcuna innovazione, perché su quella stessa innovazione ha ragionato in maniera oggettiva. Semplicemente uno che è pronto a fornirti una risposta di buon senso fregandosene se quel buon senso cozza con il pensiero dominante o con un entusiasmo adolescenziale che di questi tempi sembra tenere sempre più banco. Insomma, uno scettico rompicoglioni che forse parla poco (sicuramente meno rispetto ad oggi) ma di cui tutti si fidano ciecamente.